Nel 1841, Solomon Northrup - un nero nato libero nel nord dello stato di New York - viene rapito e portato in una piantagione di cotone in Louisiana, dove è obbligato a lavorare in schiavitù per dodici anni sperimentando sulla propria pelle la feroce crudeltà del perfido mercante di schiavi Edwin Epps. Allo stesso tempo, però, gesti di inaspettata gentilezza gli permetteranno di trovare la forza di sopravvivere e di non perdere la sua dignità fino all'incontro con Bass, un abolizionista canadese, che lo aiuterà a tornare un uomo libero.
SCHEDA FILM
Regia: Steve McQueen (II)
Attori: Chiwetel Ejiofor - Solomon Northup, Michael Fassbender - Edwin Epps, Benedict Cumberbatch - William Ford, Paul Dano - Tibeats, Garret Dillahunt - Armsby, Paul Giamatti - Freeman, Scoot McNairy - Brown, Lupita Nyong'o - Patsey, Adepero Oduye - Eliza, Sarah Paulson - Sig.ra Epps, Brad Pitt - Bass, Michael K. Williams - Robert, Alfre Woodard - Harriet Shaw, Chris Chalk - Clemens Ray, Taran Killam - Hamilton, Bill Camp - Radburn, Dwight Henry - Zio Abram, Bryan Batt - Giudice Turner, Ashley Dyke - Anna, Kelsey Scott - Anne Northup, Quvenzhané Wallis - Margaret Northup, Cameron Zeigler - Alonzo Northup, Tony Bentley - Sig. Moon, Christopher Berry - James Burch, Mister Mackey Jr. - Randall, Craig Tate - John, Storm Reid - Emily, Tom Proctor - Biddee, John McConnell - Jonus Ray, Marcus Lyle Brown - Jasper, Richard Holden - Fitzgerald, Anwan Glover - Cape, Liza J. Bennett - Sig.ra Ford, Deneen Tyler - Phebe, Mustafa Harris - Sam, Jay Huguley - Sceriffo Villiere, Devyn A. Tyler - Margaret Northup adulta, Nicole Collins - Rachel, Gregory Bright - Edward, Austin Purnell - Bob, Scott M. Jefferson - Sig. Shaw, Isaiah Jackson - Zachary, J.D. Evermore - Chapin
Soggetto: Solomon Northup - autobiografia
Sceneggiatura: John Ridley
Fotografia: Sean Bobbitt
Musiche: Hans Zimmer
Montaggio: Joe Walker
Scenografia: Adam Stockhausen
Arredamento: Alice Baker
Costumi: Patricia Norris
Altri titoli:
Twelve Years a Slave
Durata: 133
Colore: C
Genere: DRAMMATICO
Specifiche tecniche: ARRICAM LT/ARRICAM ST, (2K)/SUPER 35, 35 MM/D-CINEMA (1:2.35)
Tratto da: autobiografia "Twelve years a slave. Narrative of Solomon Northup, a citizen of New-York, kidnapped in Washington city in 1841, and rescued in 1853, from a cotton plantation near the Red River in Louisiana" di Solomon Northup
Produzione: BRAD PITT, DEDE GARDNER, JEREMY KLEINER, BILL POHLAD, STEVE McQUEEN, ARNON MILCHAN, ANTHONY KATAGAS PER RIVER ROAD ENTERTAINMENT, PLAN B ENTERTAINMENT, NEW REGENCY PICTURES, IN ASSOCIAZIONE CON FILM4
Distribuzione: BIM (2014)
Data uscita: 2014-02-20
TRAILER
NOTE
- GOLDEN GLOBE2013 COME MIGLIOR FILM (CATEGORIA DRAMMATICO). LE ALTRE CANDIDATURE ERANO: REGIA, SCENEGGIATURA, ATTORE PROTAGONISTA (CHIWETEL EJIOFOR), ATTORE (MICHAEL FASSBENDER) E ATTRICE (LUPITA NYONG'O) NON PROTAGONISTI E COLONNA SONORA.
- OSCAR 2014 PER: MIGLIOR FILM, ATTRICE NON PROTAGONISTA (LUPITA NYONG'O), SCENEGGIATURA NON ORIGINALE. ERA CANDIDATO ANCHE PER: MIGLIOR REGIA, ATTORE PROTAGONISTA (CHIWETEL EJIOFOR) E NON PROTAGONISTA (MICHAEL FASSBENDER), MONTAGGIO, SCENOGRAFIA E COSTUMI.
- CANDIDATO AL DAVID DI DONATELLO 2014 COME MIGLIOR FILM STRANIERO.
CRITICA
"I lungometraggi di Steve McQueen sono costruiti sempre giocando molto sulla fissità dello sguardo e l'enumerazione (la ripetizione) degli oggetti e delle situazioni. E anche questo '12 anni schiavo' non sembra modificare in maniera rilevante il personale approccio espositivo dell'artista-regista se non fosse per il tema, quello della schiavitù, che aggiunge al film un nuovo - e più invadente - livello di lettura, storico-politico. (...) fin dal titolo, è lo stesso McQueen che sottolinea come l'odissea di Solomon (Chiwetel Ejiofor) abbia un inizio e una fine, perché in fondo non è lo sviluppo romanzesco (anche se reale) delle sue disavventure che interessa al regista ma piuttosto l'illustrazione, la messa in mostra della condizione di schiavo. McQueen non vuole raccontare ma far vedere ed è per questo che il film ingarbuglia le coordinate temporali, evita di approfondire alcuni momenti «decisivi» della sua vita e preferisce puntare tutto sulla forza delle immagini: macchina fissa, oggetti e situazioni molto ben inquadrate (...), riprese a volte sull'asse frontale a volte perpendicolari ma dall'alto, spesso di una durata più lunga di quella strettamente necessaria a capire che cosa sta succedendo. Come nella scena già celeberrima in cui Solomon sfugge alla vendetta mortale di un sorvegliante (Paul Dano) che ha umiliato intellettualmente anche se il suo «salvatore» (che l'ha fatto solo per paura della reazione del padrone) lo lascia semi-impiccato per tutta la giornata, con il collo nel cappio in instabile equilibrio sulla punta dei piedi, mentre sullo sfondo gli altri schiavi dimostrano indifferenza alla sua situazione. Come in questa scena, tutto il film viene costruito in funzione delle sue ambizioni «illustrative». I padroni di Solomon mostrano ognuno un tratto specifico dello schiavista - l'indifferenza morale per il venditore interpretato da Paul Giamatti, il paternalismo per il possidente terriero Benedict Cumberbatch, il sadismo per il coltivatore di cotone Michael Fassbender - mentre vengono lasciati nel vago molti altri elementi che potrebbero aiutare a definire il personaggio, dai rapporti familiari alle relazioni con le schiave (...), dal ruolo della religione (speranza o condanna?) a quello dei processi di produzione e di accumulazione nel Sud. Di contro, vengono mostrate situazioni finora mai viste al cinema, come la vita quotidiana degli schiavi (fino ai momenti in cui si lavano insieme) o le situazioni di privilegio che alcune schiave riuscivano a ottenere dai loro padroni. Senza dimenticare la crudeltà delle punizioni corporali, a cominciare dalle frustrate che piagano la carne delle schiene. Tutto questo, da una parte sottolinea l'originalità dell'approccio di McQueen (...) ma dall'altra non mi pare sappia dare una vera anima al film, che resta distante come a volte sono le opere di certi artisti: magari intellettualmente provocatrici ma povere di autentica emozione. Il film sceglie di raccontare tutto dalla parte del protagonista, per inseguire una descrizione della schiavitù come angoscia e paura, come buio e smarrimento (sono molte le scene dove l'ombra sembra impadronirsi dello schermo) ma rischia di non andare molto oltre. Il sangue e la carne piagata che occupano lo schermo possono alimentare lo sdegno e la rabbia (come era già successo a Kechiche con il suo 'Venere nera') ma non aiutano molto il cinema. E il rischio già presente in 'Shame' (il suo film precedente) qui ritorna con più invadenza: un film che scivola verso il sociologismo, verso il dimostrativo, magari anche «bello» e «vero» ma senza un'autentica vita, capace di vivere oltre quello che si vede sullo schermo." (Paolo Mereghetti, 'Corriere della Sera', 17 febbraio 2014)
"La peggior vergogna dell'America ottocentesca è stata senza alcun dubbio lo schiavismo. Il cinema americano l'ha rivisitato o nelle cifre di Hollywood, 'Via col vento', o con accenti abilmente caricaturali, 'Django', o nell'ambito di un dibattito storico e civile, 'Lincoln'. Adesso il regista inglese di colore Steve McQueen ce ne parla invece dall'interno rifacendosi alla storia vera scritta da un ex schiavo, Solomon Northup, che l'ha vissuta e patita di persona (...) SteveMcQueen si era già felicemente imposto nel cinema inglese con due film intensi e quasi stravolti, 'Hunger', su un episodio terribile della guerra contro l'IRA, e 'Shame', sulla discesa agli inferi di un uomo di successo a New York. Questa volta, sulle tracce delle memorie di Solomon Northup, ha scelto, anche più che in 'Hunger', un approccio decisamente iperrealista dando spazi ai corpi martoriati, al sudore, agli sfregi, alle percosse, superando spesso i limiti del sostenibile e ben diversamente da quelle sue più quiete opere di artista visivo premiate più volte alla Mostra d'Arte Contemporanea di Kassel e alla Biennale di Venezia: primi piani durissimi, quasi spietati, alternati con piani sequenza indirizzati a esplorare fino in fondo quelle immagini lacerate e quei luoghi grondanti orrore; costruendovi poi in mezzo delle interpretazioni pronte ad esprimere le più riposte sfumature, anche se straziate. Non solo quella del protagonista, Chiwetel Ejiofor, una maschera equamente divisa fra disperazione e terrore, ma quella di Michael Fassbender che, dopo aver già recitato nei primi due film di Steve McQueen, ha accettato qui di dar vita al personaggio più odioso di tutta la storia, il padrone sadico. Unica figura positiva, il canadese che farà arrivare i soccorsi. La interpreta però con stile molto diverso dagli altri Brad Pitt, capelli lunghi e barbetta, ma non gli si poteva dire di no. Era tra i finanziatori del film." (Gian Luigi Rondi, 'Il Tempo - Roma', 19 febbraio 2014)
"Per 12 anni Salomon passa di mano in mano, senza poter comunicare con nessuno e tantomeno provare la sua identità. Come tutti i suoi compagni di sventura, anche se sa leggere e scrivere (ma guai a farsi scoprire), viene venduto, battuto, frustato fino all'abominio, seviziato e umiliato in ogni possibile modo. Senza mai perdere la sua doppia prospettiva di vittima e testimone. Testimone di quegli orrori che racconterà in un libro di grande risonanza destinato a uscire nel 1853, un anno dopo 'La capanna dello zio Tom', e ora riscoperto grazie al film (in Italia lo pubblica Newton Compton). Benché ridotto in condizioni bestiali, Solomon infatti non si limita a patire ma sa, capisce, elabora, riflette. Insomma è il ponte ideale fra quella massa bruta e oggi quasi inconoscibile di atrocità e violenza che fu lo schiavismo, e noi, con la nostra sensibilità moderna. In apertura lo vediamo tentare disperatamente di scrivere usando succo di mora come inchiostro. In un altro grande momento, una delle sue lettere brucia a lungo, dolorosamente, con lentezza quasi ipnotica. Metafora naturale quanto potente di tutto ciò che McQueen si affanna a descrivere e raccontare. Riuscendoci davvero, però, solo quando si affida fino in fondo alle immagini. Mentre convince assai meno, paradossalmente, quando articola le esperienze di Solomon all'interno di un racconto più classico e convenzionale. Non a caso la critica Usa, esaltando '12 anni schiavo' (9 nominations all'Oscar), ha sottolineato il salto di questo cineasta nato artista, che qui passa dai film 'da festival' come 'Hunger' e 'Shame', al racconto epico. Eppure McQueen, inarrivabile narratore del corpo (del martirio), risulta molto meno incisivo quando deve orchestrare un racconto più ampio e ricco di ambienti, personaggi, psicologie. Si capisce che l'America, così vergognosamente in ritardo sul tema, anche al cinema, si inginocchi davanti a un film comunque nobile e destinato a fare data. Ma non è questa la voce più vera dello Steve McQueen inglese. Speriamo che lavorando in America non la perda." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 20 febbraio 2014)
"Il film spietato, ha scene di violenza fisica e psicologica quasi insopportabili, ma mai quanto fu nella realtà. La sapienza del regista è quella di darci un'opera di fattura classica, per attanagliarci alla sorte di Solomon: che non vuole solo sopravvivere, ma tornare a vivere nella libertà. Sulla bella faccia di Chiwetel Ejofor passano tutti i sentimenti dal dolore alla speranza, dal sentirsi schiavo come gli altri ma anche uomo libero, che deve nascondere di saper leggere e scrivere per non essere ucciso." (Natalia Aspesi, 'la Repubblica', 20 febbraio 2014)
"Qualora esista uno spettatore che sappia poco o niente della storia della schiavitù dei neri nell'Ottocento americano, potrà usufruire di un corso accelerato grazie a '12 anni schiavo' (...). Non senza avere dovuto patire, però, un'overdose di sequenze eleganti, gelide, studiatissime, nonché ricolme di ogni tipo di atrocità e nefandezze programmate per indignarlo trasferendo sulle correlate necessità didascaliche il vistoso sospetto di sadismo. Sbarazzatosi di qualsiasi sottigliezza psicologica, nonostante il ricco budget e i super-interpreti (...), l'ex videoartista McQueen sulla base della sceneggiatura di John Ridley ricostruisce, infatti, le autobiografiche peripezie vissute da Solomon (Ejiofor) (...) È l'inizio del più disumano dei calvari ambientato nelle famigerate piantagioni di cotone e orchestrato da un paio di padroni che sarebbe eufemistico definire bestiali. Non a caso, del resto, questi personaggi sgradevoli al limite dell'insostenibile sono stati affidati ad attori particolarmente trasformistici, Fassbender in testa, mentre al copro-duttore Pitt è concesso il comodo cammeo dell'unico bianco abolizionista. Lo show di violenze, punizioni, stupri, omicidi che si sussegue sugli sfondi - voluti per contrasto splendidi - lungo gli anni del titolo, mentre lo sventurato Solomon cerca disperatamente di sopravvivere e persino di cooperare (senza guadagnarne ovviamente un barlume di misericordia), può essere avvicinato ai tanti allestiti sullo schermo per tramandare l'olocausto. Per fare un solo confronto, però, mentre lo Spielberg di 'Schindler's List' riesce a profondere una notevole complessità narrativa e stilistica, il regista londinese appare ossessionato dallo shock voyeuristico; facendo in modo, così, che gli episodi si stratifichino sullo stesso leitmotiv distraendo lo spettatore dal senso per cui nascono. Del resto, anche nei precedenti e giustamente lodati 'Hunger' e 'Shame', McQueen usava la rappresentazione iperrealista, insistendo sul tema del martirio del corpo, i silenzi concentrazionari e le malvagità del potere, ma senza dovere ricorrere compulsivamente ai cliché da 'grand guignol' e alle acmi di sensazionalismo. Come ha scritto tempestivamente l'esperta di cinema americano D'Agnolo Vallan, '12 anni schiavo' non è un capodopera bensì un veicolo di messaggi politicamente corretti, è inferiore come genialità d'autore e intensità morale a 'Mandingo' e 'Django' ed è il classico film di cui non si può parlare male perché si rischia d'essere accusati d'ufficio di razzismo." (Valerio Caprara, 'Il Mattino', 20 febbraio 2014)
"(...) il film, pur nella magnificenza della confezione e nell'indubbio impatto emotivo della storia raccontata, è quanto di più ricattatorio e manicheo si sia mai visto sull'argomento. Al cinema e altrove. Intendiamoci sulla parola «manicheo»: qui nessuno, credeteci, sostiene che la schiavitù abbia dei lati positivi. La schiavitù è una cosa mostruosa, che esiste ancora, che andrebbe cancellata dal mondo. Ma '12 anni schiavo' affronta il tema con un doppio difetto. Il primo è ideologico: per sostenere l'abominio del sistema schiavista in vigore nel Sud degli Usa prima della guerra di secessione, racconta un mondo in cui tutti i neri sono buoni e tutti i bianchi (tranne Brad Pitt, nel finale) sono feroci assassini con la bava alla bocca. Di più. Non è solo un problema di «buoni» e «cattivi» (che già renderebbe il film schematico). Il problema vero, che inficia qualunque buona intenzione da parte degli autori, è che quasi tutti i padroni bianchi che nel corso della trama vessano il protagonista sono degli psicopatici, sessualmente e psichicamente tarati. Ridurre la schiavitù ad una patologia è una bizzarra «diminutio» del problema: la schiavitù era un sistema sociale, su cui l'economia del Sud in buona parte si basava; e il sistema era governato da uomini tutt'altro che tarati (che, fra parentesi, punivano ferocemente gli schiavi recalcitranti e fuggiaschi ma per lo più si guardavano bene dal martirizzare quelli docili: in quanto forza lavoro, certo non per umanità). L'altro problema è strettamente estetico: '12 anni schiavo' è visivamente bello. Molto bello. Troppo bello. II titolo giusto sarebbe 'Cartoline dalla schiavitù'. Il regista Steve McQueen, che non a caso viene dalle arti visive, e il direttore della fotografia Sean Bobbitt «firmano» ogni inquadratura, imbellettando i paesaggi del Sud come se stessero girando un promo per la Film Commission della Louisiana. Se da un lato è encomiabile la fantasia con la quale McQueen costruisce le sequenze, dall'altro l'eleganza formale stride con la sostanza drammatica delle scene. Il contrasto tra la violenza della narrazione e la cura formale delle inquadrature funzionava assai meglio in 'Hunger', il primo film di McQueen dedicato allo sciopero della fame di Bobby Sands e di altri militanti dell'Ira. Ma un conto è trovare la bellezza in un ambiente sordido come il carcere, tutt'altro - assai meno originale - è rendere «bello» il lavoro degli schiavi nei campi di cotone: lo aveva già fatto Griffith in 'La nascita di una nazione', con scopi diametralmente opposti (l'elogio razzista del Ku-Klux-Klan) ma usando gli stessi espedienti estetici. Fa strani giri, la storia del cinema. Quando poi si va sulla rappresentazione della violenza, Steve McQueen sfiora la pornografia. Ed emerge potente un ricordo stranissimo: le terribili scene delle frustate riecheggiano quelle, analoghe, in 'The Passion' di Mel Gibson. Ed è curioso come due registi diversissimi, per dimostrare in modo fideistico un assunto ideologico, ricorrano a una rappresentazione della violenza parossistica e finiscano nella più feroce macelleria." (Alberto Crespi, 'L'Unità', 20 febbraio 2014)
"Un film sulla schiavitù '12 anni schiavo', con nove candidature all'Oscar, del resto l'identità postcoloniale è elemento centrale nell'opera di Steve McQueen. Insieme al corpo, carne, nervi scoperti, sangue, su cui l'artista inglese traccia, come in una cartografia di dolore e violenza, i passaggi della Storia. Era il corpo scarnificato l'arma e il luogo simbolico di resistenza agli inglesi dell'irlandese Bobby Sands in 'Hunger'. È ancora il corpo come macchina sessuale compulsiva - e mai desiderante - il segno di un contemporaneo malato in 'Shame'. Ed è il corpo, la carne nera aperta dalle frustate su cui il rosso del sangue acceca con moltiplicata violenza, che ci racconta qui la sopraffazione di un uomo sull'altro. Disumana eppure replicabile. Sappiamo che la storia di Solomon Northup è «vera», i titoli di coda ci dicono che dopo la liberazione, Solomon sarà un attivista per i diritti degli african americani fino alla morte. McQueen nella sua messinscena va oltre però l'esperienza reale, e trasforma il «romanzo di formazione» di Solomon nell'esplorazione mentale della schiavitù: cosa significa essere schiavi nella testa prima che nel corpo, nella perdita del sé, nella rassegnazione alle «regole» del sadismo ('Lo schiavo americano' di Comolli ci aveva già detto molto). Le linee lungo le quali si muove sono quelle di un paesaggio americano visto nel «rovescio» del mito, come conquista e massacri - (Solomon a un certo punto incontra due nativi americani). Popolato di figure archetipe, da una parte come dall'altra, tra gli schiavi come tra i padroni. Il coro degli schiavi alle spalle di Solomon, la schiava che vuole essere come i bianchi ... E il padrone condiscendente (Benedict Cumberbatch) - che come dice a Solomon una giovane schiava è sempre uno schiavista difatti li tiene prigionieri. E quello sadico (l'icona del regista Michael Fassbender) che somiglia a un SS e la notte costringe i suoi schiavi ai festini. Ha una sua «favorita» ma non esita a frustarla a morte. Le paludi, i campi di cotone, le «capanne dello zio Tom» che frontalmente McQueen visualizza nel film (con la fotografia di Sean Bobbitt), disegnano con angosciosa precisione l'universo concentrazionario e le sue dinamiche di annientamento. La schiavitù viene messa a nudo nell'essenza profonda, mostrandone la trama a venire: colonialismo, società postcoloniali, la lotta delle Panthers in America, e dei neri in Gb, l'odierno razzismo quotidiano. Senza retorica né consolazione." (Cristina Piccino, 'Il Manifesto', 20 febbraio 2014)
"Terzo film dell'artista/regista Steve McQueen, tratto dalla storia vera di Solomon Northup, il cui memoriale, '12 Years a Slave', venne pubblicato per la prima volta nel 1853, pochi mesi dopo l'uscita di 'La capanna dello zio Tom', della scrittrice abolizionista Harriet Beecher Stowe. Scomparso dalla circolazione fino agli anni '60, quando è stato resuscitato dalla studiosa Sue Eakin, il libro ripercorre la vicenda di Northup che, da uomo libero, musicista nello stato di New York, viene rapito, ribattezzato, caricato a bordo di una nave diretta in Louisiana e venduto come schiavo. (...) Il regista di 'Hunger' e 'Shame' fa cadere i suoi film dall'alto della sua esperienza nelle arti visive. La sua è un'opera di immagini studiatissime, molto belle e glaciali che si contrappongono allo 'shock value' dei suoi soggetti - al cinema, l'agonia di Bobby Sands e la frenetica addizione/ abiezione sessuale del protagonista di 'Shame'. '12 Years a Slave' è concepito secondo lo stesso principio. Insieme al direttore della fotografia di sempre, Sean Bobbitt, McQueen mette in scena una serie di 'tableaux vivents' della crudeltà, con riprese lunghissime; spesso in campo totale, composte con grande eleganza, in cui la bellezza degli sfondi si scontra contro l'orrore di ciò che avviene nella scena - un uomo appeso per i piedi per un giorno intero, una schiava stuprata ripetutamente. L'inguardabilità è la sua scommessa - nel caso che qualcuno avesse ancora dei dubbi sul fatto che la schiavitù sia stata una cosa orribile, disumana. Chiwetel Ejofor è Northup, Michael Fassbender (l'attore talismano del regista) è il suo aguzzino peggiore, Brad Pitt il falegname canadese che lo salva e Lupita Nyong'o la schiava cui sono riservati i più feroci tormenti. (...) '12 Years a Slave' arriva agli Oscar avvolto da un'aura di santità e inevitabilità piuttosto pesante. 'It's Time', è arrivato il momento, dice addirittura una scritta sul manifesto del film in una campagna pubblicitaria pensata per la statuetta. «Volevo essere onesto nel mostrare quello che era realmente la schiavitù, i suoi intollerabili abusi - non la versione romantica, idealizzata e asettica di film hollywoodiani come 'Via col vento'. La mia è una rappresentazione esatta di quell'epoca: il film può sembrare melodrammatico, ma è un ritratto rigoroso degli orrori dello schiavismo». Questa citazione, però, non è di Steve McQueen, bensì di Richard Fleischer, e risale al 1975. Il film di cui parla il regista di 'I Vichinghi' e 'Ventimila leghe sotto i mari' è 'Mandingo', tratto dal romanzo di Kyle Onstott (...). Devastante quadro di ingiustizia sociale, violenza, abuso, misoginia e psicopatologie sessuali, 'Mandingo' venne fatto letteralmente a pezzi dalla critica («spazzatura razzista», secondo Roger Ebert), sostanzialmente per le stesse ragioni con cui adesso celebra McQueen. Arrivato pochi anni dopo che film come 'Sweet Sweetback's Baaddasssss Son& Shaft' e 'Superfly', e il successo di autori afroemaricani come Melvin Van Peebles e Gordon Parks, avevano illuminato l'esistenza di un vasto mercato per il cinema popolare, di genere, a sfondo black, 'Mandingo' fu completamente frainteso. (...) Rivisto oggi, quel film tuttora «maledetto», sembra infinitamente superiore al glaciale sadismo arty di McQueen." (Giulia D'Agnolo Vallan, 'Il Manifesto', 20 febbraio 2014)
"(...) non è (solo) il razzismo, il cuore del terzo lungometraggio di Steve McQueen è lo schiavismo, ed è affare economico e giuridico, non mero pregiudizio e avversione razziale, cui Hollywood ha dedicato chilometri di pellicola. Già, lo schiavismo è materia scomodissima, approdata sullo schermo solo di recente: 'Lincoln' e 'Django Unchained'. Se Tarantino ha optato per la 'blaxploitation' e l'affrancamento - sociologico, non psicologico - a mano armata del singolo (Jamie Foxx), Spielberg ha messo a fuoco la legiferazione dell'abolizione, ma senza puntare sulla scrittura, sulle carte, bensì sui retroscena 'di palazzo' e la (stratta) aneddotica lincolniana, l'oralità. L'intenzione, e l'ambizione, di McQueen di fare di '12 Years a Slave' la sintesi dei due predecessori è cristallina, sin dal titolo: '12' è vergato mano, con quell'inchiostro di mora impiegato da Solomon per le proprie memorie, e sta per la prima persona singolare di Django; 'Years a Slave' è stampato in caratteri dell'epoca, e sta per il sistema abolizionista di Lincoln. Come già in 'Hunger' (...) e 'Shame', dove il regista era penna e Fassbender inchiostro della sesso dipendenza, quello di McQueen è cinema di scrittura per definizione, eppure qualcosa non torna: se la sua regia, mutuata dalla videoarte, tratteggia sempre minuziosa rumori e suoni ambientali, le righe bianche stanno altrove. Affidandosi alle memorie di Northup, si scontra tra il desiderio di una narrazione onnisciente - 'Ecco, ve la do io la schiavitù!' - e un narratore che, all'opposto, è forzatamente passivo e incarna una funzione spettatoriale. In effetti, Solomon finisce per agire a metà tra i bianchi e i fratelli di schiavitù: se la figura dell'house nigger kapò (Samuel L. Jackson in 'Django') sintomaticamente qui manca, Solomon ha competenze bianche - parla e scrive un inglese forbito che deve occultare, suona il violino - e mansioni bianche, ovvero è costretto a frustare a sangue Patsey (Lupita Nyong'o) al posto di Epps. Quest'ultima scena ha fatto parlare negli States di 'torture porn', viceversa, stigmatizza il nervo scoperto di McQueen: non bastano il tormentato aguzzino Fassbender, l'ambiguo Cumberbatch - colpevolmente abbandonato - e il bifolco cattivo Paul Dano per dire la schiavitù, serve l''homo homini lupus' - i negri per i bianchi erano bestie - e, in definitiva, il sadomasochismo, già leitmotiv del regista. Altre due le scene dirompenti (...), ma per il resto '12 anni schiavo' non scrive sistematicamente la schiavitù, solamente ne illustra sul volto-specchio di Solomon l'orrore, in verità, trattandola come razzismo, crudele idiosincrasia del singolo: analogamente, la soluzione è personale, sta nel 'carpentiere di buon cuore' (press-book) Samuel Bass, con cui il produttore Brad Pitt - guarda caso - si ritaglia il ruolo del bianco buono. La scrittura, la pastorale di un'infamia americana, ritorna solo nei cartelli finali, che svelano l'epilogo di Solomon: titolo e cartelli, appunto, ma in mezzo Steve McQueen si riscopre 'analfabeta'. Si, il cinema americano è ancora schiavo dello schiavismo." (Federico Pontiggia, 'Il Fatto Quotidiano', 20 febbraio 2014)
"Piacerà certamente ai fan del cinema di Mc Queen. I quali sono avvertiti. Troveranno più 'Hunger' che 'Shame', più lo strazio dei corpi contusi e feriti che dolori esistenziali. Soprattutto la descrizione, qualche volta vicina allo splatter, della più antica delle violenze, lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Qualcuno ('12 anni schiavo' è passato per vari festival prima di trovarsi in pole position per l'Oscar) ha parlato di deliberato 'grand guignol'. Vero. Qualcun altro ha parlato di festival della cattiva coscienza. Gli americani, a 150 anni dalla fine dello schiavismo, trovano finalmente il coraggio di raccontarlo senza darsi degli alibi (vero, vero). E infine c'è chi ha sollevato qualche dubbio sulla sincerità di McQueen (bianchi o neri sono sempre i corpi massacrati quelli che lo interessano di più). Vero, vero, vero. Ma volete saperlo? A me le cattive intenzioni di Steve interessano fino a un certo punto. Il nodo spettacolare del film è l'odissea della «carne paziente» di Solomon. Riuscirà a pazientare fino all'arrivo dell'angelo Brad Pitt? Beh, chiunque abbia letto qualcosa sulla trama, sa che Pitt, alla fine, Solomon lo trova vivo. Ma c'è tanta suspense, tanto stravolgimento di budella prima che la fine arrivi." (Giorgio Carbone, 'Libero', 20 febbraio 2014)
"(...)'12anni schiavo', a completamento di una ideale trilogia hollywoodiana sulla schiavitù che comprende i precedenti 'Lincoln' e 'Django Unchained'. Modi e tagli diversi di affrontare quello che sembra essere considerato il peccato originale di una nazione che fa ancora fatica ad assorbirlo, guardarlo negli occhi, elaborarlo. Che sia stato scelto Steve McQueen per dirigere questo film, non è un caso, essendo il suo un cinema prevalentemente di «privazione», come testimoniano i suoi precedenti 'Hunger' e 'Shame'. E la vicenda vera e kafkiana di Solomon Northup, raccontata, a volte in modo troppo didascalico, in altre fin troppo crudo, è esemplare da questo punto di vista. (...) Eppure, nonostante tutto questo, il film non emoziona come ci si potrebbe e dovrebbe aspettare. McQueen sembra più interessato ad allestire scene che a farle vivere, privandole di un'anima, tradito anche da un protagonista poco empatico. Questo non vuol dire che non vincerà agli Oscar." (Maurizio Acerbi, 'Il Giornale', 20 febbraio 2014)
"(...) la pellicola di Steve McQueen per critici e addetti ai lavori è la più accreditata alla vittoria che conta: quella del miglior film. Grazie alla presa emotiva sul pubblico di una storia drammaticamente vera: l'odissea tra libertà, schiavitù e poi ancora libertà di Solomon Northup, nero americano nato nel Nord dello stato di New York, rapito e ridotto in schiavitù nel 1841 fino alla liberazione dopo la Guerra di secessione. Merito anche dell'alto livello artistico garantito da una produzione indipendente: la Plan B di Brad Pitt, che si è perfino ritagliato un cammeo nel film, come bianco antirazzista, a riprova di quanto tenesse alla pellicola. Nei panni del protagonista convince il britannico Chiwetel Ejiofor che, curiosamente, aveva debuttato nel 1997 con una particina proprio in 'Amistad', sfortunato kolossal sullo schiavismo di Spielberg. (...) La prova davvero memorabile però è quella di Michael Fassbender nel ruolo, disturbante, dello schiavista." (Maurizio Turrioni, 'Famiglia Cristiana', 23 febbraio 2014)