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Koji Yakusho in Perfect Days
Nel suo nuovo film, Il male non esiste, il giapponese Ryusuke Hamaguchi, apre una vicenda di interruzione e ricomposizione invadendo lo schermo d'alberi, fronde, foglie, scarti di cielo, cime ondeggianti (carrellate dal basso), un passaggio interminabile, dominante, musicale. Tutto scorre, preso e ri-preso, luce e ombra, tagliato e riconnesso.
Nel nuovo film di Wenders ambientato a Tokyo l'addetto alle pulizie di bagni pubblici Hirayama, che proviamo a definire un sereno autosufficiente che predilige la solitudine e la semplicità allo splendore mondano (“wabi”, nel buddismo zen), ogni giorno fa pausa davanti a una quercia, la contempla, la osserva, valuta i fasci di luce, e scatta una foto, con un sorriso. Qualcosa è successo tra un prima e un dopo e qualcosa si ripete per quel prima e dopo, cesura e ripresa. A parte l'ossessione dei giapponesi per i ciliegi, l'albero è simbolo di caduta e rinascita, esprime taglio e continuità, ed è al centro della simbologia zen. Esistono spille dell'albero della vita per i revers, di plastica e d'oro.
Lasciamo l'apologo ecologista di Hamaguchi, e seguiamo Hirayama, anziano artigiano della sanificazione organizzato in una sorta di isola di solitudine e armonia nel caos della città, mentre la passione per hit del rock ascoltate da vetuste cassette definiscono il “tempo” di Hirayama e le radici ibride del Giappone moderno: la visita di una nipote fuggiasca dalla famiglia riporta il passato borghese e conflittuale da cui era fuggito, crea discontinuità e poi un nuovo equilibro con domande sull'età, i cambiamenti interiori ed esteriori (gli affetti, la città) e la compresenza della morte. Koji Yakusho ha vinto giustamente la Palma d'oro per la miglior interpretazione a Cannes.
Ma da dove viene, in cosa si nasconde, il consenso generale, sensuale prima che concettuale, forse scatenante endorfine? Da dove la percezione in superficie di profondità e bellezza in quest'opera per certi versi così lontana, così vicina, se vogliamo superare certi elogi ordinari, forse inadeguati, come: “trasmette il senso della saggezza”, “la bellezza nelle piccole cose”, “la potenza della discrezione”, “la dualità tra felicità e tristezza”?
I tatami shot e l’estetica dei piccoli spazi
Di questa armonia e solitudine Wenders ci descrive i dettagli, a partire dai luoghi: è immediato, ed è uno dei motivi della penetrazione del film nell'emozione sensuale dello spettatore, sentire come la scansione della giornata di Hirayama (lo stesso nome della famiglia di Viaggio a Tokyo di Ozu), anche il suo muoversi nel tempo, siano integrati ai suoi “places”, da cui sembra, come dire, entrare-uscire la sua “presenza”: l'abitacolo del furgoncino di lavoro, il giardinetto dell'albero, l'appartamento in precisi “tatami-shot”, l'interno delle toilette tra alto e basso, il tavolino al bar. Siamo nell'estetica wendersiana (altri tempi, altro cinema?), quel “sistema” dell'atto di vedere che quasi precede la storia, ed è anima del pensiero filmico da Falso movimento a Lo stato delle cose, da Il cielo sopra Berlino a Fino alla fine del mondo e Crimini invisibili, da Ritorno alla vita a Submergence: “Io amo le storie, così tanto che posso affermare: raccontarle è sempre stato il mio mestiere. Voglio tuttavia mettere in discussione il loro primato (…) Parlo dei luoghi, una parola che in tedesco è estremamente precisa, Shauplatze, posti che ci portano a guardare (…) e parlare del Senso del Luogo” (Wim Wenders, In defence of places). Dopo Antonioni...
Non solo. Per la terza volta nella sua filmografia Wenders torna al Giappone, dunque torna a un legame tra Oriente e Occidente radicato nel suo sguardo, nella sua cultura: dopo Tokyo-Ga, un percorso sulla figura di Ozu che incontra la modernità del Giappone come percentuale di americanizzazione, dalla tecnologia alla vicenda rock, e approda all'ideogramma di vuoto e nulla sulla tomba del maestro (il traslitterato “mu” o “muji”), e ancora dopo il documentario su commissione Appunti di viaggio su moda e città dove, al di là del percorso promozionale intorno alla creatività del venerato stilista Yohji Yamamoto, ci interessa qui lo scambio tra il tedesco e il giapponese: “Mi sembrava che Yohji si esprimesse al contempo in due lingue, come se suonasse due strumenti contemporaneamente: il caduco e il duraturo, il fugace e il costante, il mutevole e il saldo” (Wenders, L'atto di vedere).
Il pulito si sporca, lo sporco si pulisce
E qui arriviamo all'occupazione di Hirayama, che è anche ciò che lo occupa come disciplina: pulire cessi. Chiamato dal suo sceneggiatore giapponese a visitare le toilette dopo il Covid per un corto, Wenders decide di scrivere e girare Perfect Days, rilevando nei dettagli, in modo esplicito, il lavoro di Hirayama come “kata”, la forma stilizzata nelle arti e nell'artigianato, nella lotta con la spada come nel movimento di danza del teatro No: è la naturalezza quotidiana di Hirayami. Non dobbiamo fermarci, però, al simbolismo del “seiso” (pulizia), comunque importante nell'accezione di azione rigenerativa: “Se ti dedichi alla pulizia dei bagni comincerai ad avere con naturalezza uno stato d’animo caratterizzato dall’umiltà. Personalmente, non ho mai sentito che una persona sia diventata superba perché si dedicava all’attività di pulizia dei gabinetti” (Hidesaburo Kagiyama, Toilet cleaning management. Una dirompente strategia manageriale).
Qui Wenders ci tiene con Hirayama, più volte con lui nei giorni di lavoro, inventando anche il tris con l'Assente attraverso i pizzini lasciati nelle fessure dei bagni. Quel che diventa percettivo e interiorizzato in precise sequenze è il ritmo, il pulito si sporca, lo sporco si pulisce. La dis-continuità come dualità nell'unità è il ruolo estetico del personaggio. È il “kire-tsuzuki”, letteralmente il taglio nel continuo, la “misteriosa bellezza”, la luce di Hirayama capace di stare nella vita-morte (Ryosuke Ohashi, Kire: il bello in Giappone), anche se è fallace una traduzione diretta di categorie così fondanti una cultura così diversa, a partire dalla polisemia dei segni linguistici.
Tutto questo naturalmente è indifferente al fatto che lo spettatore lo sappia o meno, lo studi dopo o lo prefiguri durante, perché come in certe opere riuscite per un intenso e chiaro equilibrio, Perfect Days canta la sua canzone, suona la sua musica.