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Il poeta libanese Khalil Gibran ha scritto che il segreto del canto risiede tra la vibrazione della voce di chi canta e il battito del cuore di chi ascolta. Quella vibrazione diventa potente al punto da scuotere la Storia se il cuore in ascolto è quella di un intero popolo. E più o meno quello che è successo a Gaza due anni fa, quando uno dei suoi figli, Mohammad Assaf, partecipa al talent Arab Idol e lo vince. Riscattando, senza spargimenti di sangue, tutti gli abitanti della Striscia.
Una vicenda rievocata con grande partecipazione emotiva dal regista palestinese Hany Abu-Assad, già due volte candidato all’Oscar con Paradise Now (2005) e Omar (2013), due film molto duri sulla realtà dei Territori Occupati. Con The Idol cambia registro, anche se la sostanza è la stessa: sullo sfondo di una narrazione più leggera, più pop, resta un popolo in libertà vigilata in un territorio che sembra un carcere a cielo aperto, con problemi e difficoltà di ogni genere.
Abu-Assad ce lo ricorda ogni momento, quando inquadra gli edifici sventrati dell’ultimo bombardamento israeliano, quando ci fa toccare con mano la pericolosa prossimità tra spazi di vita e spazi di morte, tra la spiaggia bagnata da un mare che non porta da nessuna parte e il reticolato spinato dove rimbalzano le speranze di ogni palestinese, tra il gioco dei bambini e gli affari illeciti degli adulti. Abu-Assad coglie il nocciolo del dramma palestinese nel dilemma tra la mobilità irrefrenabile dei sogni e l’immobilità fisica imposta. E laddove le diplomazie sono impotenti, c’è l’arte a vincere l’impasse, nel modo più inimmaginabile e insieme più banale possibile: creando unione dove c’è divisione.
Suddiviso tra una prima parte briosa legata all’infanzia di Mohammad (il bravissimo Qais Atallah) e una seconda ambientata nel 2013, più schematica ma in crescendo emotivo, con il protagonista (qui interpretato da Tawfeek Barhom) che trova il modo di coronare il suo sogno, The Idol è un’operazione alla The Millionaire, ma con un peso politico affatto diverso. Abu-Assad guarda al mercato internazionale, semplifica e smussa dove può ma senza mai camuffare il contesto. L’emozione è sincera. E il tarab, il particolarissimo canto arabo, per una volta è il canto di tutti.