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Il western crepuscolare abbraccia il dramma degli aborigeni, in un racconto che mette l’uomo al centro del suo universo. Il Far West abbandona l’America di Ford e di Hawks per sbarcare in Australia, dove il mito della frontiera si è ormai sopito.
Non esiste nessuna terra di conquista, il cowboy bianco schiavizza l’uomo di colore e John Wayne non cavalca verso l’orizzonte. Non è una terra per eroi. Va in scena la tragedia della quotidianità, il travaglio intimista di chi crede ancora nell’uguaglianza. La violenza insanguina l’Australia, gli indigeni patiscono le pene dell’inferno e sembra che nessuno voglia sfidare a duello i loro carnefici.
La natura, con tutta la sua bellezza incontaminata, ospita l’orrore di chi non crede più nella vita. Il contrasto si materializza in Sweet Country, dove la terra scopre la dolcezza solo nei suoi frutti, nelle angurie che un bambino non può permettersi senza assaggiare la frusta del padrone. E poi il silenzio. Siamo soli nelle nostre sofferenze. Nel buio di una camera, una donna perde la sua dignità, e niente può salvarla. Il colore della pelle la costringe ad abbassare il capo e a portare in grembo un bambino figlio della follia. L’aridità del deserto contamina l’anima, scava nel profondo e si porta via ogni capacità di amare.
Il titolo, nella sua ironia, lancia un grido di speranza. Richiama alla giustizia un mondo che sembra essersi dimenticato le sue stesse leggi. È la pistola a comandare, non il tribunale, la chiesa o qualsiasi altra istituzione. Difesa, anche se legittima, e aggressione hanno lo stesso suono. Si sentono le urla, e poi ancora silenzio. Anche la colonna sonora non ammette musica, ma solo il rumore degli zoccoli, le porte che sbattono e il tuonare dei fucili.