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L’unica annotazione di rilievo in un film altrimenti modesto come Risorto (tratto dal romanzo di Angela Hunt, ed. Piemme, e dal 17 marzo in sala con Warner) è la narrazione dei giorni immediatamente successivi alla crocifissione di Gesù e la rappresentazione del corpo resuscitato del Cristo. A memoria non se ne trovano molti esempi nella storia del cinema. Di racconti veterotestamentari e di Passioni quanti ne vuoi, mentre le apparizioni del Messia ai suoi discepoli (le cristofanie) sono assai più rare. Come se ci fosse un pudore laicista nel dire – e nel mostrare - l’Evento decisivo del Cristianesimo.
Come riferisce Matteo nel suo Vangelo il primo incontro con Gesù risorto avviene presso il sepolcro vuoto, testimoni Maria Maddalena e un’altra Maria (nel Vangelo di Giovanni c’è la sola Maria Maddalena). In seguito sono gli Apostoli a incontrare il Maestro su una montagna in Galilea. Luca narra che Gesù stette con i suoi discepoli in carne e ossa, mangiò con loro e gli diede appuntamento a Gerusalemme là dove avrebbero iniziato la loro missione nel mondo. L’incontro con Tommaso, cui fa toccare le ferite, e l’investitura di Pietro come pastore delle sue pecorelle, vengono invece riferite da Giovanni. E se Marco riporta sia gli episodi narrati da Matteo che quelli di Luca, ulteriori aneddoti vengono forniti dalle lettere di Paolo, gli Atti degli Apostoli e il Vangelo degli Ebrei.
Tra gli episodi mostrati dal film di Kevin Reynolds c’è il pranzo con i discepoli narrato da Luca (durante il quale avviene anche l’incontro con l’incredulo Tommaso), la reunion in Gerusalemme, l’investitura di Pietro e la pesca miracolosa. Il tutto sotto gli occhi scettici di Clavio, un tribuno militare romano (Joseph Fiennes), incaricato da Ponzio Pilato di indagare sulla sparizione del corpo del Cristo.
Se la figura di Clavio richiama evidentemente quella evangelica di Paolo di Tarso, prima persecutore poi discepolo dei cristiani, il film di cui è protagonista è un remake non dichiarato de L’inchiesta di Damiano Damiani (1986), tratto da un vecchio soggetto di Ennio Flaiano (L’uomo di Nazareth, 1971) e rifatto qualche anno fa per la televisione da Giulio Base (L’inchiesta, 2007). In quel caso Keith Carradine interpretava un funzionario romano, inviato dall'imperatore Tiberio in Giudea per cercare un uomo che si diceva fosse resuscitato. L'indagine lo porterà dal governatore della Giudea Pilato (Harvey Keitel), dai discepoli e dalla Maddalena. Ma l’enigma non verrà risolto. Insomma una classica detection dal finale aperto, che interpellava lo spettatore e il suo Credo.
Al contrario Reynolds e lo sceneggiatore Paul Aiello non si fermano sulla soglia di un Mistero ma scommettono sulla Resurrezione, chiedendo di condividere il loro atto di Fede. Una simile sfacciataggine farà certamente storcere il naso agli atei e agli agnostici, ma l’imbarazzo dovrebbe serpeggiare anche tra i cristiani se si analizza il problema dal punto di vista iconografico. La visione del Corpo del Cristo risorto mette francamente a disagio. Ha qualcosa di improprio che esula dalle proprietà fisiognomiche dell’attore che lo interpreta (il maori Cliff Curtis). E’ come se il film sfidasse un tabù antico del cinema, dove la rappresentazione del Corpo Glorioso costituisce da sempre un problema. Questo non a motivo di un’ineluttabile prosaicità dell’immagine cinematografica, che di corpi è fatta, ma proprio perché l’immagine quei corpi li trascende. La corporeità senza corpo del cinema, luminosa, simulacrale e incorruttibile, è già in sé una forma de-umanizzata, divistica più che divina. Il culto dell’attore nell’antico star system è un corollario della vocazione intrinseca dell’immagine cinematografica, in cui – scrive Cappabianca nel suo Il cinema e il sacro – “non può esserci posto per l’inaudito, per quell’avvento della spiritualità nel corpo che il Cristo inaugura, ponendo il paradosso del Corpo del Divino.”
Non c’è tanto un divieto di raffigurazione del Corpo di Dio, anche se l’iconoclastia è un atteggiamento duro a morire, ma un imbarazzo ad animarlo, farlo parlare, presentarlo come un essere fisico in tutto e per tutto, uguale agli altri e nello stesso tempo diverso, possessore di qualità ultraterrene. Come suggerire la Gloria del Corpo del Signore tra i tanti corpi gloriosi del cinema? Il calco fisiognomico sulla scorta di certa tradizione pittorica mostra assai più limiti che pregi. Meglio sarebbe disattenderla, mostrando un Cristo che “non ha apparenza né bellezza”, come il Su Re di Columbu, o uno plasmato solo sulla Parola, come quello di Pasolini. Ma la questione si complica quando questo Corpo del Divino risorge e diventa Corpo Glorioso, non fantasma ma corpo materiale dominato completamente dallo Spirito, perciò impassibile, sottile, agile e chiaro secondo le quattro caratteristiche descritte da San Paolo. Come mostrare un corpo così?
Risorto opta per la serenità dei tratti, il trionfo di luci, i colori caldi e l’effetto scenico, culminante nell’ascensione in Cielo dentro una palla di fuoco (il Sole). Scampoli del divino o spettacolari fantasmagorie stile Marvel? Il problema con Hollywood è che non si capisce mai la differenza.