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Richard Glatzer, ha detto una volta che l’Alzheimer e la Sla sono malattie opposte ma simili: “Una attacca il cervello e lascia intatto il corpo; l’altra risparmia il cervello ma devasta il corpo. Entrambe logorano l’identità”.
Sulla prima ha girato un film bellissimo, Still Alice; la seconda invece lo ha ucciso. Glatzer, con il sodale Westmoreland, è stato tra gli ultimi ad arricchire il filone ospedaliero, azzerando la distanza di sicurezza tra noi e la malattia fino a guardarla da dentro.
Più spesso il cinema americano, portato per indole e profitto ad essere rassicurante, ha usato la malattia come pretesto. In alcuni casi per parlare dei diritti del malato, in una filmografia che va da Philadelphia a Dallas Buyers Club. In altri per farne un espediente melodrammatico. Guardando alla malattia, ma da lontano. Neutralizzandone così gli effetti.
Non fa eccezione questo Qualcosa di buono di George C. Wolfe, in cui tra una elegante pianista cui viene diagnosticata la sclerosi laterale amiotrofica e una ragazza mezza sciroccata e troppo diretta che si offre di aiutarla, ad emergere è semmai la stanchezza di una formula narrativa trita e ritrita. Un po’ Quasi amici rosa e un po’ Thelma & Louise da fermo, senza però la verve e l’urgenza di nessuno dei due. Eppure Hillary Swank è brava, Emmy Rossum bella. La confezione però banalizza un contenuto che puzza.
Così, nell’ordine: una malattia improvvisa 1) costringe il protagonista a fare i conti con la propria esistenza 2) suscita ondate crescenti di commiserazione e di esclusione sociale; 3)autorizza nel malato modelli di condotta censurabili altrimenti 4) crea amicizie e complicità prima impensabili 5) si sviluppa tematicamente su un piano orizzontale - in rapporto agli altri – tralasciando del tutto quello verticale - in rapporto alla morte. E poi piangono loro, loro soltanto. Come nei film tv del sabato pomeriggio. Mentre chi non ha la lacrima facile aspetta quel qualcosa di buono che arriverà solo nel finale. Sui titoli di coda.