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Paradise Beach (2016)
Non bisogna sbagliarsi pensando che Paradise Beach sia solo un derivato de Lo squalo. Non è a quel livello, non ne ha nemmeno l’intenzione. Non lo è soltanto in ogni caso. Ci vengono in mente una manciata di altri riferimenti utili, da Robinson Crusoe al recente ma decisamente più serioso e riflessivo All is Lost, passando da Un mercoledì da leone di Milius. Modelli che il film di Collet-Serra adocchia fugacemente per poi girarsi da un’altra parte. Qui rileviamo al massimo una spettacolarità canonica, una cristallina visione Pro Surfer, senza spessore metafisico né ardore epico. Però non è nemmeno Sharknado.
Paradise Beach è decisamente il titolo più hot dell'estate, con tutta quell'insistenza da maschio alfa del carcarodonte nei confronti della sirena Blake. E poi è tutto un lambire di pinne, di gambe, un serrarsi di cerniere e di denti, un tempo assoluto di attese pazienti e di assalti frontali, l'essenza stessa del corteggiamento e della caccia, che funzionano poi allo stesso modo, il dai e vai di chi l'ha dura la vince, il profluvio di liquidi e l'alternanza ritmica delle maree: su e giù, su e giù, su e giù. Per tacere ovviamente dei primi e primissimi piani anteriori/posteriori che Jaume Collet-Serra dedica alla sua eroina.
Che ci fosse qualcosa di malizioso nella faccenda era chiaro del resto fin dalle primissime battute, con quei rimandi neanche troppo velati al Paradiso (così viene ribattezzata la spiaggia messicana senza nome), alle mele del peccato (che la divina Lively addenta come sensualità comanda) e alla donna gravida (il cui profilo emergerebbe in controluce dalle formazioni rocciose che si staccano dall’acqua).
E così, questo divertissement di mezza estate (quasi di fine) scivola via che è una meraviglia, più leggiadro delle tavole da surf che cavalcano le onde, più veloce del grande squalo, persino più veloce di Blake. Le amenità di sceneggiatura non si contano e chiunque altro, nella medesima situazione, sarebbe morto più rapidamente di quanto non ci metta la protagonista a capire che un banco di meduse possono anche salvarti la pelle (curioso, no?).
Ma la plausibilità è l’ultimo dei problemi per un prodotto mainstream che lavora soprattutto a un livello metaforicamente elementare sul corpo erotico dell’attore e, spudoratamente, sul concetto di cinema come macchina fagocitante/desiderante e, in definitiva, castrante.
Povera bestia, povero spettatore.