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Una donna statunitense di mezza età compie un viaggio in Italia, nel Meridione, alla scoperta delle proprie radici. La ricerca la conduce sino a Craco, autentica città fantasma, borgo abbandonato nella provincia di Matera, luogo-non luogo ricco di echi cinematografici, da Rosi a Gibson. Persa in uno scenario a metà fra l’apocalittico e il bucolico, la donna prosegue il suo percorso attraverso il Tempo, circondata da figure ambigue, gli “spettri” di una comunità ormai estinta che può rivivere, ormai, soltanto attraverso il circuito della memoria.
Montedoro, lungometraggio di Antonello Faretta, è un oggetto filmico anomalo, arduo da decifrare e da reggere: cinema sperimentale, senza dubbio, poiché è la ricerca formale a dare compiutezza e valore, a informare, in senso etimologico, il contenuto. Composizioni accurate, immagini fisse quasi insostenibili per durata, senso del paesaggio, nostalgia priva di pietismo per la cultura contadina: a tali innegabili pregi, tuttavia, si giustappongono aspetti meno convincenti come il carattere liricizzante, al punto da suonare spesso falso, dei dialoghi - seppur pochi -, e una tendenza esasperata al quadro surreale e al simbolismo a tutti i costi.
Montedoro, in conclusione, richiede allo spettatore una pazienza somma, una disposizione a lasciarsi cullare dalle immagini che, oggi meno che mai, non tutti sono inclini a concedere.