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Bryan Cranston e Helen Mirren in L'ultima parola - La vera storia di Dalton Trumbo
"Le direi che è un segreto di cui non deve più farsi carico. Che ci hanno reso il nostro nome". Partiamo dalla fine, dai titoli di coda del film di Jay Roach, che ripropongono una vera intervista a Dalton Trumbo, in cui il grande scrittore e sceneggiatore - ormai reintrodotto "ufficialmente" nell'ambiente - parla della figlia più piccola, che aveva tre anni quando, nel 1950, venne condannato a 11 mesi di prigione e, una volta uscito di galera, per i successivi dieci anni ha dovuto mantenere il più stretto riserbo sull'attività del padre, costretto a scrivere sotto falso nome innumerevoli script per continuare a mantenere la famiglia.
Il senso profondo dell'opera è tutto lì: Jay Roach, accantonate le fortunate e demenziali saghe di Austin Powers e i vari Ti presento i miei, cambia registro e si dedica ad uno dei periodi più bui del secolo scorso a stelle e strisce, quello del maccartismo. Caccia alle streghe che a Hollywood trovò il suo terreno più fertile, e che in particolare ebbe il suo climax con il cosiddetto gruppo degli Hollywood Ten, composto dal regista Edward Dmytryk e nove sceneggiatori, compreso Dalton Trumbo, rei di non aver collaborato con la Commissione per attività anti-americane.
Il film di Roach si concentra sul ventennio 1950-1970 (il film termina un anno prima che Trumbo dirigesse il suo primo lungometraggio, E Johnny prese il fucile, tratto dal suo omonimo romanzo che nel 1939 ottenne il National Book Award) e segue da vicino, naturalmente, la vicenda del personaggio principale, interpretato da Bryan Cranston, candidato all'Oscar.
Tra gli sceneggiatori più in voga e più pagati negli anni '40, Trumbo - sposato con Cleo (Diane Lane) e padre di tre figli - è un comunista convinto e si schiera a favore delle proteste sindacali all'interno degli studios. Ma la campagna contro i "traditori" dello stato è caldeggiata fortemente anche dall'interno di Hollywood, la cui portabandiera è l'editorialista ex attrice Hedda Hopper (Helen Mirren) spalleggiata da John Wayne (David James Elliott), quest'ultimo a capo dell’Alleanza cinematografica per la tutela degli ideali americani.
Basterà rifiutarsi di rispondere alle domande della Commissione (di fatto, contestando il diritto della stessa ad indagare sulle opinioni personali e politiche delle persone), a differenza di quanto fecero altri colleghi come l'attore Edward G. Robinson (Michael Stuhlbarg), per finire in prigione: tornato in libertà dopo 11 mesi, Trumbo viene emarginato. Ma non per questo smette di lavorare: per più di un decennio firma sotto falso nome innumerevoli sceneggiature per i fratelli King, produttori di B-Movies. Neanche la gioia di poter ritirare due premi Oscar (nel 1954 per Vacanze romane, sceneggiatura attribuita al collega e amico Ian McLellan Hunter, e nel 1957 per La più grande corrida, firmata con lo pseudonimo di Robert Rich): Trumbo si riapproprierà del suo nome solamente nel 1960, quando Kirk Douglas e Otto Preminger renderanno pubblico il suo coinvolgimento per gli script di Spartacus e Exodus.
A differenza di altri film in argomento (vedi Il prestanome di Martin Ritt o Indiziato di reato di Irvin Winkler), questo di Roach racconta oltre ai fatti anche di personaggi realmente esistiti (e non semplicemente ispirati a), restituendo - proprio come spiega Trumbo in quell'intervista - il nome a chi, ingiustamente perseguito, ne venne privato. Forte di un'interpretazione d'insieme maiuscola e di una ricostruzione convincente, il film - basato sulla biografia Dalton Trumbo scritta da Bruce Cook nel 1977 (ora in Italia con Rizzoli) e sulle testimonianze delle due figlie di Trumbo, Niki e Mitzi - offre non solo un ulteriore sguardo generale sul contesto pubblico, ma anche un interessante dietro le quinte della quotidianità del celebre scrittore e sceneggiatore, le sue fisime (era solito scrivere a macchina dentro la vasca da bagno), le sue "assenze" in quanto marito e padre, contrapposte ai momenti di grande affetto e scambio all'interno della famiglia.
Non c'è la volontà di farne un santino, insomma, piuttosto di ergerne la figura a paradigma di uomo mai venuto meno ai suoi ideali, per i quali preferì rinunciare al proprio nome piuttosto che "vendere" quello di altri colleghi e/o amici.