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L'ora legale
Vedersi appioppare l’etichetta di “opera civile” - lo abbiamo letto da più parti a proposito del nuovo lavoro di Ficarra e Picone - non sempre è un buon segno per un film. Soprattutto se comico. Come lamentava il venerabile Jorge nel Nome della rosa il riso è il diletto della plebe. Difficilmente potrà essere civile. È semmai sguaiato, irriverente, incontinente, pericoloso. Tutte cose evidentemente che L’ora legale non è. Pur apprezzando il tentativo di rifare una commedia “all’italiana” meno compromessa e autoassolutoria, più feroce e dolorosamente amara, a partire dall’intelligente ribaltamento prospettico operato dalla sceneggiatura - qui il politico è onesto, l’elettorato invece irrecuperabile - c’è qualcosa di macchinoso e insieme di improvvisato nell’operazione che non convince.
Siamo a Petrammare, un immaginario paesino della Sicilia (che poi altri non è se non Termini Imerese), ed è tempo di elezioni: bisogna scegliere il nuovo sindaco. La sfida riguarda il primo cittadino uscente, l’immarcescibile Gaetano Patanè (Tony Sperandeo), emblema del politico rozzo, furbo e clientelare, e lo sfidante Pierpaolo Natoli (Vincenzo Amato), un professore di liceo onesto, determinato a ripulire la città da lassismo e malaffare. Non c’è storia: Natoli vince per acclamazione ma non appena il neo-sindaco inizierà a mettere effettivamente in pratica il suo programma elettorale – dalle licenze sul suolo pubblico alla raccolta differenziata alla chiusura degli impianti inquinanti sulla costa – insorgeranno tutti cospirando per farlo dimettere.
Ficarra e Picone tratteggiano una serie di personaggi gattopardeschi, dal parroco (Leo Gullotta) che non ci sta a pagare l’IMU per il B&B della chiesa, al vigile (Antonio Catania) che non aveva mai fatto una multa, fino ai due cognati del sindaco (gli stessi Ficarra e Picone) che gestiscono un bar vicino al Municipio prima frequentato a tutte le ore dai dipendenti comunali. I comici siciliani non risparmiano niente e nessuno – c’è anche un oscuro tuttofare della politica venuto apposta da Roma per aiutare “i petrammaresi” a liberarsi di Natoli – abili a smarcarsi tanto dal becero qualunquismo accusatorio (fabbricatore di capri espiatori) quanto da quello difensivo (sedotto dalla logica del “tanto lo fanno tutti”), ma peccano per costruzione drammaturgica e messa in scena, scivolando sulla buccia di banana del pressapochismo. I personaggi sono senza profondità, mere figurine a uso e consumo della politica e dei giornali (il prete arraffone, l’impiegato assenteista, l’uomo di cultura giusto e mite, il meridionale incivile), ma poi manca anche il ritmo, il guizzo che sovverta le cose, la cattiveria sfacciata di uno Zalone (lui però si affida a Nunziante, un vero regista) che prenda il disastro civico e lo eriga a sistema, l’habitat familiare di cui si può ridere ma non sbarazzare perché è quello che siamo. Uno specchio.
Quello che Ficarra e Picone ci mettono davanti è invece un quadretto desolante, di fronte al quale viene difficile pure sorridere. Non che la cosa ci riguardi: quelli in definitiva non siamo noi.