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Dopo 12 anni di assenza, Louis (Gaspard Ulliel) torna a casa. Scrittore, gay, la sua non è una visita di mera cortesia: vuole annunciare alla famiglia la sua vicina morte. La madre Martine (Nathalie Baye), il fratello Antoine (Vincent Cassel) e la sua sposa Catherine (Marion Cotillard), la sorella Suzanne (Léa Seydoux) come accoglieranno il figliol/fratello prodigo? Il pomeriggio dell’incontro è funestato dall’incapacità, diffusa, di mettersi in ascolto, di non prevaricare, mentre solitudine e malinconia prendono il sopravvento…
Dopo il premio della Giuria nel 2014, l’enfant prodige quebecois Xavier Dolan torna in Concorso a Cannes con Juste la fin du monde, da lui scritto a partire dalla pièce teatrale di Jean-Luc Lagarce.
L’obiettivo è sulla famiglia, e non è benevolo: il sesto lungometraggio del cineasta, classe 1989, di Montreal stigmatizza l’incomunicabilità, la violenza, la sopraffazione e l’inautenticità delle relazioni familiari, facendo di Louis il capro espiatorio. Strumentali, parziali o sevo-padrone, le dinamiche di cui è oggetto nella casa avita portano sullo schermo una critica feroce all’istituzione familiare, in particolare, borghese: non si slava nessuno, in fondo, nemmeno Louis.
Fotografato con abbondanza, se non totalità, di primi piani, immagini sature e montaggio serrato, Juste la fin du monde ci riconsegna ottimi attori troppo su di giri e il talento, a dire il vero ondivago, di Dolan, ma insieme ne ribadisce i limiti: le intenzioni vengono smontate dall’ipertrofia stilistica, dall’attitudine eminentemente estetizzante, cosicché il mélo, riferimento di genere, finisce per soffocare la poetica.
Lacrime e strappi, emozioni e dolori, tutto rimane in superficie, inquadrato e illuminato come vuole il canone di Dolan, non come si deve perché dietro un racconto sontuoso si senta la storia, la realtà, sperabilmente, la verità: fa fede il titolo, “E’ solo la fine del mondo”, il nostro, sostituito dal lussureggiante e berciante diorama di Dolan.