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Jusqu'à la garde
Miriam (Léa Drucker, brava) e Antoine Besson (Denis Ménochet, perfetto) hanno divorziato, e lottano per la custodia del figlio minorenne, Julien (Thomas Gioria, un angelo): la donna vuole proteggerlo da un padre, asserisce davanti al giudice, violento. Viceversa, Antoine si piange addosso senza lacrime, e convince il magistrato: l’affido è congiunto. Non è, vedremo in una escalation tremenda, la soluzione migliore: il conflitto tra Miriam e Antoine fa di Julien un ostaggio, alla mercé del peggio…
E’ L'affido, in originale Jusqu’à la garde, esordio al lungometraggio del francese classe 1979 Xavier Legrand, già apprezzato e premiato internazionalmente per il corto Just Before Losing Everything.
Grandi attori, regia millimetrica, storia tosta e racconto misurato, è tra le cose migliori viste nel grande Concorso della 74esima Mostra di Venezia, da cui è uscito come meglio non avrebbe potuto: Leone d’Argento per la regia e, assegnato da un’altra giuria, Leone del Futuro, ovvero migliore opera prima. Troppa grazia? No, a meno di non essere piccini e rosiconi: introspezione psicologica, nessun manicheismo, pathos senza additivi, dolore senza placebo, è un esordio sorprendente proprio là dove gli esordi abitualmente falliscono, nel controllo della materia e nella padronanza del mezzo. Legrand, nomen omen, dimostra maestria, perizia, fin troppo: calcolato, limitato, implosivo prima ed esplosivo dopo, sicché il suo film assume qualcosa di antico, incarna qualcosa che ti fa sperare arrivino i buoni, che ti fa confidare non tutto sia perduto, che l’irreparabile non succeda. Del resto, si sta in poltrona ma, capirete vedendo, è come se fossimo anche noi in quella vasca. Prima e durante, una teoria di violenze, anzi, una violenza senza soluzione di continuità, sorda, meccanica, iterata: Jusqu’à la garde vi affonda il coltello, e ancor prima affonda la macchina da presa nelle ragioni dell’uno e dell’altro, sebbene quell’altro non ne abbia.
Tutto è senza fretta, senza enfasi né spiegoni, tutto è giocato nel binomio violenza e rappresentazione: la rappresentazione della violenza è inesorabile, impietosa, financo nichilista, viceversa, la violenza della rappresentazione violenta non è mai, bensì raffreddata, appunto calcolata, paratattica, misurata. Fino all’epilogo, in fondo, è l’anticlimax a farla da padrone drammaturgico, travasato negli occhi, le mani, le lacrime e il terrore degli attori. Sono loro a fare il film, a riflettere la storia, impreziosire il racconto: avercene. Ci possiamo davvero affidare, ché tutto è perfetto, cadenzato col metronomo dell’umano, calmierato da un’idea di cinema che non ha bisogno di esibire ed esibirsi per provarsi necessaria, urgente. Ellissi, non detti e, da noi, non uditi abbondano, eppure, capiamo tutto: il cuore non è mai leggero, la fine è solo un’alternativa, la violenza e soprattutto l’assenza di un reale antidoto fanno male. Ancora, dopo, comunque.
Non è un film facile, tantomeno consolatorio, e più di qualcuno l’ha criticato, se non denigrato, stigmatizzandone il naturalismo spiccio, l’architrave a tesi, l’esplicito intento sociologico, la tavolozza piscologica senza sfumature. Sono, in gran parte, questi nostrani detrattori gli stessi che per le opere prime, seconde, terze e ancora italiane hanno occhi prosciuttati, corsivi di velluto e stelle facili: poverini, e correi del nostro cinemino. Di più, in questo caso pure stolidi: come se la violenza, questa violenza, andasse necessariamente indagata, studiata, indi “preparata”, come se l’avvio in medias res scelto da Legrand, anche sceneggiatore in solitaria, non ne inquadrasse meglio la brutale irrazionalità, la devastante ineluttabilità, la mera evenienza, che per lungo tempo seguiamo attraverso il piccolo Julien. Come se, in definitiva, gli orchi non esistessero e, ammesso e non concesso, andassero capiti o, richiesta uguale e contraria, resi più ambigui anziché filmati e basta. Ecco, tenendo fede al titolo, prendeteli in custodia questi critici, e teneteveli.