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Un’estate come tante, spesa a bighellonare tra il fiume, il bosco e il centro commerciale, a menar fuscelli per l’aria mentre tutto intorno il mondo rivela una qualità nuova, una bellezza inedita e sinistra. Agli occhi di due dodicenni, Samuele e Matteo, troppo grandi per giocare, troppo piccoli per incominciare a vivere.
Più che una sinossi, sono annotazioni e pensieri in libertà, figli di quelle stesse suggestioni che sembrano ispirare la (non) sceneggiatura de I Cormorani, promettente esordio nel lungometraggio del torinese Fabio Bobbio. Che ci immerge in una biosfera indefinita, reale e immaginaria, situabile tra il delta del Po (là dove capita di imbattersi nei cormorani del titolo) e i non luoghi urbani. In questo spazio indeterminato, senza centro, Bobbio coglie un impercettibile cambiamento di stato, un equivalente cinematografico delle trasformazioni sperimentate (e non esplicitate) dai due adolescenti. Un lavoro che inizialmente sembra apparentarsi al realismo fiabesco del recente cinema off italiano del nordest, per poi distaccarsene divenendo pura esperienza fotogenica.
Un cinema rischioso, intuitivo, istintivo, che pensa la messa in scena come messa in situazione, lasciandosi toccare e modificare da ciò che gli si para davanti. Un cinema senza i paracarri della scrittura e dell’artificio, che si dona così com'é, forte di un’innata intelligenza estetica.
Un cinema prezioso, depurante, che richiede tempo e restituisce Tempo, che si consegna a una marginalità senza compromessi, pensandola non come una condanna ma una promessa di salvezza.