PHOTO
La guerra non si combatte solo sul campo di battaglia, ma anche tra le mura casalinghe, dove ogni genitore attende angosciato il ritorno del figlio. La morte è una presenza costante in Foxtrot, una tragedia in tre atti che unisce stili diversi in un tripudio di musiche e colori. Il regista Samuel Maoz gira un film coraggioso, intimista, che non ha paura di attaccare una società fondata sulla violenza. Lui è stato un carrista nel 1982, durante l’invasione del Libano da parte di Israele, come ci aveva raccontato con Lebanon. Questa esperienza di gioventù, l’ha reso un militante che usa la macchina da presa per denunciare l’assurdità di ogni conflitto.
In Lebanon (Leone d'Oro a Venezia nel 2009), i suoi protagonisti erano rinchiusi in un carro armato “infernale”. Era la culla di ogni incubo, una prigione claustrofobica che offriva uno spettacolo in prima fila per il massacro successivo.
Questa volta i soldati vivono in un mondo surreale, in un posto di blocco ai confini della realtà. Dormono in un container che ogni giorno sprofonda nel fango di qualche centimetro in più, e quasi non comunicano tra loro, alienati dalle mansioni quotidiane. Una lattina di birra può trasformarsi nel pretesto per scatenare l’impossibile, e spesso l’unico ad attraversare il checkpoint è un cammello, l’allegoria di un destino che attende beffardo all’entrata.
La prima parte affronta il dolore, la tenebra che avvolge una famiglia dopo aver scoperto che il loro Jonathan non c’è più. Michael, un architetto israeliano di successo, è disperato. La sua bella casa non lo lascia respirare e la macchina da presa lo stritola in lunghi primi piani. La moglie Dafne quasi non capisce, è confusa: perché Israele, la sua patria, le ha inflitto questa pena? Che senso ha combattere? Le nostre esistenze sono come il foxtrot, ci spiega il protagonista e, nonostante tutti gli sforzi, si torna sempre al punto di partenza.
Poi lo stile cambia e l’umorismo nero sale in cattedra. In un checkpoint in mezzo al deserto si canta, si balla, e si narrano le bravate di gioventù. Maoz sembra innamorarsi dell’immagine e alcune sequenze potrebbero avere una punta di artificiosità, ma non rappresentano virtuosismi senza un fine. Sono la caricatura di una mattanza paradossale, di un’istituzione che mette i giovani dietro a una mitragliatrice senza spiegare il perché.
Foxtrot ha il pregio di osare, di spingersi oltre il limite per scommettere su generi diversi e far discutere. Tutti aspettano qualcosa che non arriverà mai, a cavallo tra i lavori di Brecht e il teatro di Beckett. E l’unica certezza è che il destino verrà a bussare alla nostra porta, senza poter sfuggire all’inevitabile. La speranza, con un briciolo di ottimismo, fa capolino nel terzo atto, dove le risate intelligenti lasciano il palco alla forza delle emozioni. Il dramma da camera che soffocava i protagonisti nelle prime sequenze lascia entrare un po’ d’aria. E Foxtrot respira, è pieno di vita, anche nel raccontare il dramma di questo cupo presente.