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Un mostro nasce e basta. Senza il conforto di un rimedio possibile. E ora parliamo di Kevin è un film sulla resa, sulla domanda inevasa del Male. E' un adolescente che una mattina si alza e compie un massacro. Punto. Attorno non il vuoto d'adolescenza alla Van Sant (Elephant), ma dolore, rapporti, persone. E una madre, “cuore” dell'intera operazione.
Eva ripercorre a ritroso il cammino di preparazione all'eccidio del figlio. Cerca nei singoli episodi che hanno segnato il fallimento educativo, affettivo; scava dentro la meccanica inceppata di una relazione che non sa, non può essere. Una traccia, un segnale, un errore che spieghi. Sprofonda dentro l'abisso di un odio che divampa contro (e con) l'ostinazione di un amore necessario, naturale, illogico pure questo. E chiede: "Qual è il punto?". "Il punto è che non c'è il punto", risponde il figlio con glaciale, apodittica, chiarezza.
Ma resta questa volontà di capire a tutti i costi, il tentativo di scrivere almeno una parola (di senso, quindi di speranza) sul diario che qualcuno ha lasciato indelebilmente bianco. Anzi, rosso: un film sommerso da un mare di sangue, sin dalla sequenza d'apertura (una plongèe verticale riprende una “guerra” a colpi di pomodoro).
Dall'omonimo romanzo di Lionel Shriver, la Ramsey ha tratto un dramma familiare che sembra un horror (Il presagio), intimista e sovraccarico di simboli. C'è persino troppo stile, un'ombra di compiacimento nella confezione. Ma è un eccesso voluto, la voglia di trasmette allo spettatore la stessa sensazione di disagio, di doloroso soffocamento, della protagonista.
Lei, Tilda Swinton è immensa. Così martoriata da martoriarci. John C. Reilly è l'inutile padre perfetto; Ezra Miller, inquietante oltre ogni immaginazione. Una maschera che s'incrinerà solo nel finale quando, dopo due anni di silenzio, risponderà un'altra volta alla madre: "Perché l'ho fatto? Prima lo sapevo, ma ora non ne sono più tanto sicuro".
E se anche il Male fa fatica a comprendere se stesso, può allora essere perdonato?