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Dopo la regia a quattro mani di Mine, con Armie Hammer, e la co-produzione di Ride insieme a Fabio Guaglione, da Resinaro era lecito aspettarsi un’altra prova di carattere. I “due Fabio”, infatti, sono annoverati tra gli esponenti del nuovo cinema italiano di genere: ambizioso, appassionato e, di conseguenza, coinvolgente. C’è traccia, in Dolceroma, di questo anelito, ma purtroppo rimane tale: una traccia.
Dolceroma è il film diretto da Fabio Resinaro, ispirato a Dormiremo da vecchi (Chiarelettere), scritto da Pino Corrias.
Un Lorenzo Richelmy fin troppo rigido nella parte dello scrittore sociopatico, straniante oltre lo stereotipo hollywoodiano, si contende la palma di protagonista con Luca Barbareschi produttore del e nel film. Il conflitto di interessi, comunque, non pesa quanto un pronunciato narcisismo, compensato però dall’impronta che, a quanto pare, solo lui è in grado di donare al film.
Claudia Gerini, potenzialmente figura chiave della vicenda, non dimostra che una pallida ombra di carisma: a lei è affidata una tra le immagini più iconiche del film, ma se ne sciupa il potenziale estetico quando la stessa scena si ripete nel finale.
Probabilmente, l’indecisione dei caratteri (ondivago e poco incisivo anche quello di Valentina Bellè) e la retoricità delle battute deriva da una direzione artistica volenterosa ma confusa. Fino a metà, con intere sequenze delegate a montaggio e voce narrante, Dolceroma parla insistentemente di scrittura e produzione nel cinema. Poi, sterza repentinamente verso il thriller investigativo, ma non nel modo esemplare de Il ladro di Orchidee. Continua, qui e là, a pulsare la vena comica dei primi 45 minuti, con un Luca Vecchi disperso nella seconda metà, fino a un piccolo cameo nel finale.
La disposizione di trama e indizi registici è sufficiente, ma la soluzione dell’enigma arriva comunque senza la sorpresa cui ambisce. Quello che stupisce è la gestione della climax, il flirt con il genere action e uno scontro finale che guarda a Tarantino, sì, ma da distanza siderale.
Superato dai precedenti Lo chiamavano Jeeg Robot, Veloce come il vento e, senza andare troppo indietro, Il Primo Re, questo esempio di cinema italiano in transizione è pure sulla buona strada, ma non ha (ancora) la forza di percorrerla fino in fondo.