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Boston - Caccia all'uomo di Peter Berg
Boston - Caccia all'uomo di Peter Berg prende le mosse dalle parole del sopravvissuto Patrick Downes: “Due persone hanno impiegato giorni, settimane, per pianificare il loro atto d’odio, e invece l’amore ha saputo reagire in un istante”.
Sì, perché Patriots Day (questo il titolo originale, meno "sminuente" della "traduzione" italiana) è il film con cui il regista di Lone Survivor e Deepwater Horizon torna all’attentato della maratona di Boston, avvenuto esattamente quattro anni fa, il 15 aprile 2013, ad opera dei due fratelli Tsarnaev, musulmani di origine cecena.
E seppur non allontanandosi di un centimetro dal solito cinema muscolare, teso, dal montaggio serrato, declinato al thriller e inevitabilmente patriottico (nel senso più nobile del termine, però), Peter Berg va in cerca di quel profondo senso di unione, della capacità di reazione, solidarietà e cooperazione che ha contraddistinto la città di Boston in quei giorni.
E che siano proprio la città, le sue anime più disparate, i veri protagonisti del film, lo comprendiamo sin da subito. Grazie al prologo, in cui facciamo rapida conoscenza dei vari personaggi, dapprima separati e ignari dell’esistenza degli altri, poi – in un modo o nell’altro – tutti coinvolti nel tragico, duplice scoppio sulla linea del traguardo a Boylston Street, vicino a Copley Square: 3 morti, 264 feriti. E un’indagine da portare avanti in rapidissimo tempo per risalire all’identità dei responsabili della strage.
È da qui che il mosaico filmico inizia a comporsi, con ottimi risultati: Tommy Saunders, il poliziotto interpretato da Mark Wahlberg (nato e cresciuto a Boston, al terzo film con il regista) è l’unico personaggio "di finzione", seppur summa di più agenti impegnati nel caos di quei giorni, in un certo senso sintesi e portabandiera di un’intera collettività, infortunato e claudicante già prima del tragico evento, metafora di un luogo ferito ma non per questo domo. Capace di rialzarsi, appunto, grazie all’apporto simultaneo, spontaneo e immediato, della comunità tutta, con soccorritori e forze dell’ordine in prima linea.
“L’unico modo per far funzionare questo film era rendere la città di Boston un vero e proprio personaggio. Avevamo bisogno di quei cittadini, e avevamo il dovere di farlo bene per loro”, dice Berg nelle note di regia.
Che non dimentica, prima dei titoli di coda, di aggiungere le testimonianze reali delle persone che poco prima aveva raccontato: dai coniugi Patrick Downes e Jessica Kensky (entrambi feriti gravemente e costretti all’amputazione delle gambe) al giovane Dun Meng (rapito dagli attentatori in fuga, capace di sfuggirgli e di avvertire le autorità prima che riuscissero a raggiungere New York, decisi a piazzare altri ordigni), fino naturalmente al commissario di polizia di Boston, Ed Davis (interpretato da John Goodman), al sergente della polizia di Watertown Jeffrey Pugliese (J.K. Simmons) e all’agente speciale dell’FBI Richard DesLauriers, interpretato da Kevin Bacon che, ironia della sorte, era anche nel cast del recente Black Mass, il film sul gangster James 'Whitey' Bulger, arrestato proprio dallo stesso DesLauriers.
Kevin Bacon in una scena del filmIn quei 4-5 giorni successivi all’attentato, dentro un capannone allestito come centro operativo per gli oltre 2.500 agenti dei vari corpi impegnati nell’indagine, proprio DesLauriers ha avuto il delicato e difficile ruolo di comando: ricreando sul pavimento (in stile Dogville, per intendersi) la scena dell’esplosione, supportato dalla memoria “urbana” di Saunders, riesce attraverso le telecamere di sorveglianza dei negozi limitrofi a individuare i due sospettati principali, responsabili del “più grave atto terroristico su suolo americano dopo l’11 settembre”.
E nel tratteggio dei due fratelli Tsarnaev, con il minore più succube e l'ambiguità della moglie del convinto Tamerlan, l’americana Katherine Russell, convertita all’Islam, Peter Berg costruisce in un’unica sequenza il momento più politico ed ideologico di Boston - Caccia all'uomo, quando la donna viene interrogata da una fantomatica agente dell’antiterrorismo, sedicente musulmana: “Io sono nata in un container con la scritta Unicef sulle pareti, tu in una stanza con i fiori e i palloncini colorati”.
Perché l’odio, a quanto pare, può sedimentarsi anche nell’agio. Ma ha bisogno di molto tempo per essere coltivato. Mentre il bene, il bene no, il bene è capace di esplodere in un’istante.
“E’ stato il momento peggiore della nostra vita, ma in qualche modo anche il migliore – dice Jessica Kensky, sopravvissuta e rimasta senza entrambe le gambe –. Dopo aver ricevuto così tanta cura e attenzioni, non potevo far altro che alzarmi dal letto e riprovarci, e provare a rendere questo mondo migliore per gli altri”.
United We Stand, Divided We Fall.