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Come sanno bene seduttori e sedotti, un corpo può rivelare tante cose e nasconderne di altre. Ma se a dirlo è un anatomo-patologo tutto appare più sinistro. Autopsy è un horror da camera, intelligente e originale, sviluppato interamente su un tavolo autoptico, dove l'habeas corpus è una misteriosa donna, ribattezzata "Jane Doe", rinvenuta all'interno di un'abitazione teatro di un sanguinoso eccidio. Un corpo inanimato, impagliato dal rigor mortis, senza però ecchimosi, ferite o abrasioni. Un corpo integro, giovane e bello. Seducente? Di sicuro interessante.
Lo pensa lo sceriffo, lo pensano i Tilden, padre e figlio (Brian Cox ed Emile Hirsch), da decenni un punto di riferimento per la polizia nel campo della medicina legale. Saranno loro a dover eseguire l'autopsia, scoprire come e perché quella donna è morta. E forse risolvere il caso. Ma a volte più si scava e meno si riesce a vedere il fondo.
Il norvegese André Ovredal bilancia molto bene umorismo macabro, detection scientifica e atmosfere horror, costruendo un film apparentemente semplice e binario dove, a partire dallo specchio posto all'intersezione tra due corridoi comunicanti, tutto è raddoppiato (e rovesciato): la casa è anche l'obitorio, lo spazio dei vivi è anche quello dei morti; il destino passa dal padre al figlio; il corpo senza vita e la vita senza corpo; la scienza e la superstizione; la realtà fenomenica e quella esoterica; il dato scatologico e quello escatologico.
Senza rivelare nulla di più, se non che per una volta l'apparato anatomico e quello allegorico (lo scheletro però non è nell'armadio ma in una cella frigo) duettano che è una meraviglia .
Tolti i trascurabili sottotesti familiari e alcune trovate abusate, il film funziona, inquieta, domanda. Il suo corpo del reato è gore, politico e anche metafisico. Non lo dimenticheremo facilmente. E lui, comunque, ci verrà a cercare.