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150 milioni di bambini tra i 5 e i 14 anni sono coinvolti nel lavoro minorile nei paesi in via di sviluppo. E’ il 16% del totale per quella fascia di età. Il fenomeno riguarda soprattutto Africa subsahariana (25%), Asia meridionale (12%), Medio Oriente e America Latina. C’è un 5% anche in Europa centrale, anche se le proporzioni del fenomeno sono assai più spaventose in Pakistan (88% dei bambini coinvolti in lavori dannosi per la loro salute), Bangladesh (48%) e India (40%). Sono i numeri impietosi diffusi dall’Unicef e che forniscono una preoccupante cornice a Iqbal: bambini senza paura, un progetto a due teste (producono Italia e Francia, dirigono un francese, Michel Fuzellier, e un iraniano, Babk Payami), dalla gestazione lunghissima, oltre dieci anni, dall’acquisizione dei diritti del libro da cui è tratto alla realizzazione dello storyboard fino alla messa in produzione effettiva.
Iqbal non possiede la complessità delle storie Pixar né il disegno, ma ha il dono della semplicità e chiaro in mente il target di riferimento. “Evita perciò ogni riferimento a violenze di tipo fisico, senza risparmiare però quelle psicologiche" (Michel Fuzellier).
Il protagonista, Iqbal, vive alla periferia di una metropoli di fantasia di un immaginario Terzo Mondo. Per procurarsi le costose medicine che servono al fratello malato di bronchite, si reca di nascosto in città per vendere la capretta cui è affezionato ma viene tratto in inganno dal complice di un fabbricante di tappeti e finisce in una specie di fortezza dove altri bambini della sua età sono costretti a lavorare come schiavi ai telai. Solo il coraggio, la scaltrezza e l’amore per la libertà consentiranno a Iqbal di non restarci per sempre.
La storia è tratta dal romanzo di Francesco D’Adamo, Storia di Iqbal, a sua volta ispirata alla vicenda del vero Iqbal Masih, il bambino pakistano divenuto simbolo della lotta contro il lavoro minorile, assassinato vent’anni fa dopo aver denunciato la sua drammatica esperienza e la mafia dei tappeti. Rispetto alla realtà (e al libro), il film ha immaginato un finale diverso perché gli eroi come Iqbal o come Malala, non devono morire. Sono la replica della realtà al tronfio superomismo Marvel e agli effetti speciali rispondono con l’accecante verità della loro testimonianza.
Al cinema c’è bisogno anche di loro.